Come era facile intuire, con tutto il rispetto dovuto ai nostri doppiatori (tranne Sandro Acerbo che ha decisamente rotto il ca**o), il film perde molto, moltissimo. Ripeto: da vedere SOLO ed esclusivamente in lingua/e originale/i.
Cast stellare e Castellari
La “e” di basterds non sta lì per dare una pennellata di slang giovanilista bensì per ovviare ad una mera questione di copyright. I “veri” bastards sono infatti i protagonisti di un film del ’78 firmato da Enzo G. Castellari noto ai più agguerriti cinefili d’Italia con il titolo “Quel maledetto treno blindato”.
E’ sufficiente scorrere la filmografia di Castellari – dove spicca in postproduzione un eloquente Caribbean Basterds (si, con la “e”!) – per capire la natura del soggetto scritto da Tarantino. Soggetto che era in lavorazione da quasi dieci anni e che, sia ben chiaro a chi grida al remake, ha davvero poco a che vedere con l’originale.
Perché siamo nel ’41 e un commando di ebrei americani guidato da un tenente che si ispira agli Apache può partire per la Francia con l’obiettivo di uccidere i crucchi solo se dietro la macchina da presa c’è Quentin Tarantino.
E se vuoi divertirti alla grande devi crederci. Per 153 densissimi minuti.
Aggiungiamo pure un piccolo cinema francese gestito da una giovane ebrea scampata per miracolo ad un massacro. La premiere di un film di propaganda nazista trasformata in una trappola mortale e l'irripetibile occasione di far fuori il gotha del Reich (Führer incluso).
Questi gli elementi di una una pellicola che farà sicuramente parlare di sé a lungo, checchè ne vogliano i critici di Cannes.
Ormai non si può più parlare di citazionismo, postmodernariato, cultura o sottocultura pop.
Piuttosto, è facile immaginare un Tarantino sornione intento ad architettare un altro colpo, mentre seleziona accuratamente gli ingredienti per un nuovo frullato di immaginario collettivo.
Si, perché per quanto nelle interviste si mostri abbattuto dal flop di Grindhouse, Tarantino resta una scheggia impazzita capace di legare l’altrimenti inconciliabile.
Un cast internazionale dove le star (Pitt per primo) offrono una caricatura di sé e del proprio paese d’origine, una colonna sonora che stride ma ipnotizza affiancando David Bowie a Morricone e un tocco finale dato da un montaggio più calibrato del solito, condito qua e là da tocchi di postproduzione squisitamente kitsch.
Come definire altrimenti, in un film ambientato durante la seconda guerra mondiale, le presentazioni dei personaggi con tanto di fermo immagine blaxploitation accompagnate dalla voce narrante di Samuel L. Jackson?
Once upon a time…
… in nazi occupied France… inizia così l’avventura dei bastardi senza gloria e quel “c’era una volta” si rivela subito una soluzione snella ed elegante per mettere in guardia lo spettatore.
Ehi – dice. – se mai ti fosse venuto in mente di prendere questa roba sul serio, ricordati che è un film di Tarantino. Anzi, è il film di Tarantino, quello che ha sempre sognato di fare sin dai tempi in cui avere il numero di telefono di Brad Pitt era una fantasia che accomunava Quentin alle ragazzine di mezzo mondo.
Ma la storia del giovane che lavorava nel videonoleggio e che finisce nell’olimpo del cinema la conosciamo tutti. Oggi questo ragazzo può permettersi di scrivere i personaggi pensando agli attori che vuole, sapendo che quelli non potranno dirgli di no.
Latte, strudel, whisky delle Highlands e vino francese
Ovvero: ricordati questo intruglio prima di vedere il film.
La pellicola, che nelle parole del regista è “una storia di vendetta in cui il cinema assume il ruolo di salvatore del mondo” è retta da quattro pilastri ben definiti.
Quattro scene, croce e delizia del film, quattro tavoli diversi con i personaggi che vi siedono intorno fanno da snodi fondamentali portando l’intreccio verso l’esplosivo finale. Se lì, nella tensione crescente e nei dialoghi calibrati alla perfezione si riconosce il Tarantino migliore, lo stesso finisce con il cedere all’autocompiacimento e le scene in questione diventano lunghissime, traghettando abbondantemente oltre le due ore una storia che avrebbe senz’altro guadagnato da una maggiore sintesi.
Ma il cast ci crede e così, mentre Aldo l’Apache (un Pitt divertente e divertito) arricchisce la sua collezione di scalpi nazisti (!) e Christoph Waltz eclissa tutti regalandoci un indimenticabile Colonnello Hans Landa, la lucida follia prosegue fino ad un’imprevedibile quanto catartico epilogo.
Inglorious Basterds inizia come un western, prosegue come una commedia e si immerge rapidamente nella spystory senza mai dimenticare l’ormai caro, vecchio gusto pulp.
Tarantino ottempera al suo preciso dovere piazzando qua e là scene di violenza che mai come in questo film sembrano inserite a forza. E’ forse questo l’unico accostamento azzardato che stavolta non gli riesce alla perfezione. L’America, che qui fa capolino solo in una telefonata, ne esce sbeffeggiata ma contenta, spavalda e incorreggibile come nel vecchio cinema. E se ai ritratti schizzati di Hitler siamo ormai abituati, qui persino l’infallibile Herr Landa, una volta trovatosi di fronte ai bastardi senza gloria, si mostrerà vulnerabile nel suo unico punto debole: quello di non essere americano.
Come sempre, Tarantino ha confessato di avere molto altro materiale sui basterds che è poi stato accantonato per esigenze di sceneggiatura. Accenna appena all’ipotesi di un sequel (o Volume II, che fa più cool) ma poi parla chiaro: “dipenderà tutto dalla risposta del pubblico.”
Presentato come il primo esempio di un nuovo cinema internazionale, il film punta molto sulle sfumature delle lingue. Tedesco, inglese, francese e persino un imbarazzante (e irresistibile) siparietto in italiano
Persino gli accenti dei vari personaggi hanno un ruolo chiave e per quanto si possa confidare nella direzione del doppiaggio, questo è un film da vedere in versione originale.
Se non altro per lo spettacolo offerto dall’austriaco poliglotta Waltz o per sentire Brad Pitt finalmente libero di massacrare la lingua inglese come fanno tutti i nati dal Kansas in giù.
Special thanks to Paolo @Director's Cup.
0 Say whaaaaat?|?:
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